La cascina non era solo una entità indipendente e autonoma di carattere economico, ma anche una realtà sociale ed umana, unica nel suo genere. Ogni unità aveva la sua storia e la sua cultura che si confondevano spesso con la storia e la cultura della famiglia che possedeva il fondo da generazioni.
Il motivo per cui la cascina andava in eredità al primo figlio era una necessità per garantire continuità e prestigio al casato. L’indivisibilità del fondo era la garanzia per mantenere alto il reddito ed il potere della famiglia.
Tutto questo era dovuto al fatto che la figura centrale della famiglia era il Padrone, proprietario o affittuario che fosse. Per un rapporto diretto con lui bisognava passare attraverso il Fattore, elemento onnipresente. Il Fattore prendea dal Padrone “gli ordini della giornata” e li distribuiva ai dipendenti: inimicarsi il Fattore, o la moglie del Fattore, significava spesso avere grandi problemi per la serenità del lavoro.
Il Padrone rimaneva sempre la figura centrale e determinante nella cascina, la cui prosperità dipendeva dalle sue scelte, dalle sue conoscenze, dalla sua capacità di gestione, dal tatto con cui trattava e dipendenti e da un attributo fondamentale: la disponibilità dei capitali.
I salariati erano lavoratori a tempo pieno, cioè impiegati per tutta l’annata agraria, il cui contratto iniziava il giorno di San Martino, l’11 di novembre. In genere era gente scelta, capace di offrire una prestazione continua e costante, il cui nucleo era costituito dal capofamiglia, da sua moglie e da numerosi figli.
I figli erano indispensabili: senza figli la cascina non poteva sopravvivere. La mortalità infantile era enorme, ma compensata tuttavia dalla grande quantità di nascite. La gente aveva il senso della circolarità della vita, nel ripetersi ininterrotto degli avvenimenti: anno dopo anno, alla primavera sarebbe sopraggiunta l’estate, l’autunno, l’inverno. Per capire tutto questo meccanismo bastava il calendario, anzi il Lunario, quello basato sulla fase lunare di sette giorni e che ha dato origine alla nostra settimana. Con il lunario era possibile sapere quendo bisognava seminare, raccogliere, mettere le uova a covare, tagliare la legna senza che si deteriorasse, ingravidare gli animali, ibottigliare il vino, fare stagionare il formaggio, tagliare il foraggio e raccogliere i cereali. Tutti sapevano queste regole e si impostò la quotidianità della cascina.
Il salariato iniziava la sua attività l’11 di novembre, giorno di San Martino, e il rapporto poteva essere rinnovato di anno in anno. In tutta la cascina, in quella particolare ricorrenza, era un vociare allegro di adulti e bambini.
Spesso anche coloro che non dovevano fare il “San Martino”... lo facevano lo stesso: caricavano parte delle loro cose su un carro, facevano un giro intorno al paese e tornavano alla propria casa, la stessa, allegri e felici: per tutta la famiglia riso, fagioli e vino in quantità.
Fino a non molti anni fa, quando le stalle erano numerose, dentro ad ogni stalla c’era l’altarino di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, sempre ordinato, inghirlandato e con un lumino acceso. Nella festa in cui commemorativa del Santo, il 17 gennaio, il Parroco passava per le stalle del paese a dare una benedizione particolare agli animali.
Sempre Sant’Antonio Abate veniva ritenuto “padrone del fuoco”, ed era per questo considerato guaritore dell’herpes zoster, chiamato “Fuoco di Sant’Antonio”. Da tempo immemorabile nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, si faceva festa, bruciando grandi cataste di legna, dette appunto i “Fuochi di Sant’Antonio”. Le ceneri, chiuse in appositi sacchettini tenuti nelle tasche degli abiti servivano come amuleti: tenevano lontane le malattie e le persone portatrici di guai.
Parte del materiale di questa pagina è stato estratto dalla pubblicazione “Invito a Corte - Tradizioni, Arte, Cultura, Folklore, Prodotti tipici, Enogastronomia nelle Corti rurali Lombarde” (ed. Regione Lombardia).